ARCHITETTURA ATTENUATA

 

«...Per Ettore Sottsass i disegni sono molto importanti. Non smette mai di farne, sui suoi taccuini di carta scelta ad hoc, con lineenforti decise, macchie di colore, osservazioni sottili e piene di immaginazione. I suoi disegno sono strumenti di lavoro, ma sono anche fatti per il puro piacere di farli...» (da Domus, Maggio 2003).

“Architettura Attenuata” è un testo di Ettore Sottsass jr. (Innsbruck 19/09/2917 – Milano 31/12720007) nel catalogo dell'omonima mostra, Allestita nell'Ottobre 2003 presso la Galleria Antonia Jannone di Milano.

Riproponiamo il testo confluito in “Di chi sono le case vuote?”, pubblicato da Adelphi nel 2021, accompagnato da alcuni disegni di Architettura.


«Molti anni fa quando c'era ancora la grande Russia, che però cominciava a scricchiolare, so­no stato invitato a Varsavia a parlare con gli stu­denti del politecnico e ci sono andato. Era qua­si inverno e a Varsavia faceva un freddo bestiale e mi hanno messo in un albergo tutto perfetto, un po' come gli alberghi americani. Tipo Hilton.

Quando sono arrivato era notte e c'era un grande buio profondo perché tutte le luci della città erano spente o quasi; niente vetrine illu­minate, niente neon delle pubblicità, niente fari o riflettori vari. Anche le strade erano oscu­re, poco illuminate e le auto pochissime. Fuori dalla finestra, dall'altra parte della stra­da, nel buio vedevo un enorme palazzo nero, un palazzo gigantesco, di pietra, con larghe sca­linate, con portoni alti, con moltissime colon­ne, grossi finestroni. Forse anche statue. Tutto nero nel buio.
Quell'edificio sembrava un'apparizione, un fantasma, giustificato soltanto dal freddo del Nord, dalla notte senza luci e anche dall'assenza di abitanti. Che cosa avrebbero potuto fare gli abitanti lì dentro? Parlare sottovoce? Dedi­carsi alle torture? Gli abitanti erano tutti scappati? Quando ho chiesto perché c'era quell'edificio e a che cosa serviva, mi hanno detto: « È un re­galo della Russia alla Polonia ». Poi uno studente ha detto: « In Russia, al poli­tecnico c'è una facoltà dove si studia soltanto l'architettura monumentale ».

Anche a Hong Kong, anche a Tokyo, anche nelle metropoli americane, anche a Brasilia, le notti cittadine sono più o meno così: i grattacie­li sono abbandonati al buio, le banche sono o-scure, le finestre degli uffici deserte, i musei sprangati; sono chiusi i giornalai, i tabaccai e le autorimesse alte venti, trenta piani, sono sche­letri di cemento senza senso. Gli edifici per concerti, congressi, spettacoli, discorsi politici e cose del genere hanno vita provvisoria. Per qualche istante sono circondati da vaste distese di parcheggi di lamiera e poi, quando le lamie­re se ne vanno, quei grandiosi edifici stanno immobili, in silenzio, come fantasmi morti sul colpo, circondati da spazi deserti con le righe bianche per « posti macchina ».

Qualunque destino insegua il potere e qualun­que forma il potere finisca per assumere non può fare a meno di sventolare bandiere gigan­tesche, innalzare campanili, templi e cattedrali altissime, torri, ziggurat, piramidi: non può fare a meno di impossessarsi di spazi vasti, di dimen­sioni esagerate, non può fare a meno di segna­lare la propria presenza, la propria potenza, la propria ineluttabilità, la propria eternità. Dal fantasma di qualche specie di potere, di qualche tribù che invocando Dio o la Patria o la nuova società riesce a dire alle altre tribù che cosa devono fare, che cosa devono sperare, che cosa devono odiare, non c'è modo di liberarsi. Le scuole dove si studia attentamente come progettare l'architettura monumentale, dove gli architetti diventano compiici dei program­mi del potere, ci saranno sempre e le storie dell'architettura parleranno sempre di archi­tetture monumentali. E così sia.

L'altro giorno stavo sdraiato sul bissuolo di una vecchia casa dell'isola di Filicudi e vedevo il gran­de Mare Mediterraneo con le altre isole e i vul­cani lontani e allora mi è venuto in mente che forse l'architettura può avere altri destini che non sono soltanto quelli di cui si occupa la sto­ria dell'architettura.

Mi sono domandato: «Perché la storia dell'ar­chitettura si occupa soltanto di monumenti? Forse perché i monumenti sono sempre pensa­ti così giganteschi che resistono nel tempo? « Perché la storia dell'architettura si occupa sol­tanto o specialmente dei segni che i poteri han­no lasciato di se stessi? ».
Forse perché i segni del potere sono special­mente rispettati data la paura che il potere con­tinua a trasmettere anche quando è il rudere di se stesso? Anche dopo morto? Perché la storia dell'architettura non si occupa dei milioni e milioni e milioni di case e casette allineate lungo le strade tra un paese e l'altro o allineate per fare strade corte e piazze o sparse a popolare colline, montagne, valli, rive dei ma­ri e rive dei laghi?
Mi sono messo a pensare che l'architettura di una nazione, di un popolo, di un momento, non è necessariamente disegnata dai dieci o venti o cinquanta monumenti - o tombe - che i poteri di passaggio hanno gentilmente pagato per lasciare la loro memoria che non è la me­moria delle infinite vite della gente, delle in­finite ore passate dovunque dalla gente a cerca­re di sopravvivere, passate a domandarsi per­ché, come, quando, a domandarsi ogni giorno che cosa succederà domani. Forse l'architettura di una nazione, quella sparsa nelle valli, sulle colline, sulle spiagge, lungo le strade, nei paesi, è disegnata dalla presenza delle mille e mille case e casette, ville, villette e villone che sono progettate e costruite per vive­re, sono pensate per la vita che si vive dalla mat­tina alla sera e sono anche pensate - se così de­ve succedere - per l'oblio; non sono certo pen­sate per lasciare memoria. Sono circondate da giardinetti o giardini e non necessariamente da parchi. Anzi, come ho visto in Cina sono circondate da orti piccoli con in­salate di un verde speciale fosforescente, con cavoli viola e fiori rosa e bianchi di piselli.


I paesi delle isole greche sono paesi delle isole greche perché ci sono le casette. Non c'è il Partenone.

Anche il Giappone è - o era - disegnato di migliaia di casette con il tetto di ceramica blu, im­merse nelle foreste di bambù che ondeggiano sempre. Non ci sono gli imponenti templi di Nara.
Anche l'architettura della California ha rischia­to di essere disegnata dalle casette, milioni di casette di legno che si possono portare di qua e di là e poi casette progettate da architetti delle facoltà dove si insegna a fare casette, progettate da Neutra, da Mies, da Eames, da Frank Lloyd Wright, ecc.
Anche il Bronx è disegnato da mille case e ca­sette abbandonate, con le porte inchiodate, le saracinesche arrugginite, i vetri opachi, grigi di polvere.
Anche a Bahia nel Sertào l'architettura è fatta di casette, casette dipinte dalle donne, casette di tutti i colori, tutte in fila a fare strade di fami­glia. Non c'è la cattedrale di San Salvador...

Perché l'Architettura monumentale non si de­gna mai o quasi mai di guardare quell'altra gi­gantesca architettura che è disegnata dalla som­ma delle architetture di tutte le case, casette, fab­briche e fabbrichette, alberghetti e pensioni? Perché quelli che sanno queste cose, quelli che gestiscono il «design management», «l'architet­tura monumentale management», il manage­ment in generale, non organizzano facoltà nelle quali si pensa soltanto all'architettura come som­ma delle architetture delle case, casette, fabbri­che, fabbrichette, alberghetti e pensioni? Facoltà dove si pensi soltanto al destino delle generali architetture attenuate, metafora del reale stato di salute o malattia delle società?»