intervista a GIUSEPPE DI BENEDETTO: TRANSIZIONE DIGITALE E CONTINUITA' ANALOGICA

 

GIUNONE E ICARO
tecnica mista su carta cm 21x21, 2019
Giuseppe Di Benedetto
è nato a Palermo nel 1961. Architetto e Dottore di ricerca, è Professore Associato di Composizione Architettonica e Urbana del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo, dove insegna Progettazione Architettonica nel Corso di Laurea in Architettura LM4. È Delegato alla Ricerca e componente del Consiglio Scientifico di Ateneo, per l’Area CUN 08/A – Architettura.



- Innanzitutto una sua definizione di Architettura.

La mia definizione di architettura non può che trovare sintesi in quelle espresse dai Maestri.

In occasione di ogni prolusione sono solito ripetere agli allievi che, per comprendere davvero il senso del fare architettura e per distinguere un’architettura da una semplice forma costruita, non possiamo che riferirci alle memorabili parole di Le Corbusier: «la costruzione è per tenere su, l’architettura è per commuovere». Ecco, questa è la vera finalità dell’architettura: suscitare stati emozionali a chi la esperisce. Un’altra memorabile definizione di architettura è certamente quella che ci offre Adolf Loos: «Se in un bosco troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto un uomo. Questa è architettura» (A. Loos, Parole nel vuoto, 1910). Parole inquietanti, persino ambigue a una lettura affrettata, eppure così chiare e profonde di significato se si analizzano con attenzione. Perché il tumulo è assunto come espressione stessa dell’architettura? In cosa consiste il suo “carattere”? Sullo sfondo c’è innanzi tutto il bosco, cioè un luogo naturale con cui una forma, realizzata dall’uomo con un arnese (elogio della tecnica?), si confronta dialetticamente. Questa forma possiede precisi rapporti dimensionali (tre piedi per sei) e quindi propone chiare proporzioni percepibili come applicazioni di inequivocabili regole geometriche. Numeri, rapporti metrico-proporzionali presiedono dunque alla costruzione della forma. Una forma primaria, quella troncopiramidale, certamente non priva di rimandi, evocazioni, ben radicata, nel suo intrinseco significato, nell’esperienza degli uomini. Infatti, essa suscita in chi la guarda, e per il “carattere” che esprime, un particolare stato emozionale. «Ci facciamo seri» - dice Loos - «e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno». La forma è quindi espressiva del suo specifico valore identitario nel rapporto stringente tra significato e significante. Questa è architettura.

PRIMO CARNET DEI VIAGGI, matita grassa, 2017-18

- Quale indirizzo scolastico ha frequentato prima di iscriversi alla Facoltà di Architettura?
Ho frequentato il Liceo Artistico Statale di Palermo tra il 1975 e il 1979 scegliendo, dopo il secondo anno, la Sezione Architettura. In quegli stessi anni il Liceo Artistico, o meglio la succursale nella quale ero iscritto, aveva sede nell’ala principale del palazzo Ajutamicristo, una delle dimore nobiliari più importanti del centro storico di Palermo. Lascio immaginare quale poteva a essere, da parte di un giovane discente, la percezione del valore dell’abitare quegli spazi, pregni di un’aura aulica e monumentale, in uno dei momenti più significativi della propria vita. Ovvero, il periodo della fase dell’apprendimento e della formazione rivolta alla conoscenza di una complessa fenomenologia artistica operata all’interno di una scuola vocata e dedita a questo tipo di proiezioni cognitive tese, oltretutto, al rintracciamento delle radici culturali e identitarie della comunità cui si appartiene. Da qui il mio personale e profondo legame con questo Liceo nel quale, oltretutto, sono ritornato da docente quando, nel 1992, vinsi il concorso a cattedra per la classe Discipline geometriche, architettoniche, arredamento e scenotecnica.

- Chi è stato il relatore della sua Tesi di Laurea e quale era il tema?

SECONDO CARNET DEI VIAGGI
matita grassa e penna su carta, cm 20,5 x 13, 2018-19
Mi sono laureato nel novembre del 1986, presso la Facoltà di Architettura di Palermo, con una tesi dal titolo La Porta della città. Nucleo di servizi e riprogettazione nel contesto territoriale sud di Palermo. Relatore e correlatore erano, rispettivamente, i professori Cesare Ajroldi e Francesco Cannone. Con entrambi ho stabilito, in seguito, un forte sodalizio amicale e accademico. Cesare Ajroldi, in particolare, è stato, insieme ad Angelo Torricelli, il mio tutor della tesi di Dottorato in Progettazione Architettonica e di un successivo Assegno di Ricerca, sempre presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo.

- A parte l'attività strettamente professionale, realizza disegni indipendenti da progetti finalizzati alla costruzione o pratica altre forme di espressione artistica?
LA FABBRICA DI GUGLIELMO
acquaforte, 2016
Da quando, nel settembre del 2012, sono diventato docente universitario di ruolo in regime di impegno a tempo pieno, non svolgo alcuna attività professionale ma, essendo un docente di Composizione Architettonica e Urbana, il disegnare e il progettare rimangono la mia attività prevalente legata alla didattica, alla ricerca e, principalmente, alla mia stessa dimensione esistenziale. Disegno continuamente e non trascuro mai, ovunque mi rechi, di portare con me matite e taccuini. Sono fortemente convinto dell’azione terapeutica dell’esercizio manuale del disegno. Non a caso Jung ne
L’uomo e i suoi simboli afferma «Non si tratta soltanto di riprodurre ciò che si vede […] si rende visibile ciò che viene segretamente percepito» (C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli [1967], Milano 1991).

- Può dirci qualcosa sul suo processo creativo?
Lo schizzo è l’incipit dell’eidos immaginativa. Custodirli e riesaminarli a posteriori è indispensabile per comprendere il reale significato di ciò che hanno successivamente prodotto. In quanto principio genetico, lo schizzo si pone come momento iniziale del processo ideativo. Coincide esattamente con quella fase “prologo” nella quale l’architetto, lo scultore o il pittore, con immediatezza fissa, con pochi essenziali tratti la prima forma visibile di una fugace intuizione. Questo primo stadio di visualizzazione grafica non è altro che la trasposizione del disegno esterno (ovvero l'immagine grafica) di quel disegno interno (idea o concetto) di cui già trattava nel 1607 Federico Zuccaro nel suo trattato Idea de' Pittori, Scultori e Architetti.

TERZO CARNET DEI VIAGGI, matita grassa su carta, cm 9 x 14, 2018

Per Delacroix lo schizzo era l’uovo o l’embrione dell’idea, perché i primi tratti grafici con i quali si indica il proprio pensiero contengono in germe tutto quanto l’opera presenta di saliente.

Lo schizzo sta all’opera finale come il seme sta alla pianta. Lo schizzo è il seme dell’opera; in esso è virtualmente potenzialmente custodita l’opera finale, che una volta completata o realizzata si costituirà come il punto conclusivo del processo ideativo, il punto in cui si conclude il processo immaginativo.

FICUS MAGNOLOIDES, ORTO BOTANICO DI PALERMO
tecnica mista su carta, cm 20,5 x 13, 2018
Lo schizzo costituisce inoltre l’impronta grafica della personalità artistica, del carattere più intimo dell’autore. Per questo motivo lo schizzo rappresenta, per me, la forma grafica più espressiva, più pura, più autentica. Esso è la testimonianza visibile più attendibile e inimitabile degli aspetti reconditi delle capacità e delle sensibilità grafiche del disegnatore che lo esegue.

Lo schizzo non mente perché rappresenta il primo stadio di un processo ideativo in atto in cui il tratto, per la sua indefinita fluidità grafica, compone il nucleo visibile di segni suscettibile di molteplici successive soluzioni, di una stessa immagine finale, rispetto alla quale esso schizzo si pone come adumbratio, così come dicevano i latini.

Personalmente, come i tanti carnet accumulati testimoniano, ricorro frequentemente allo schizzo anche per veloci annotazioni dal vero, per fissare alcuni particolari, caratteristiche visibili di un oggetto piuttosto che di un ambiente, che di un paesaggio. Come Le Corbusier, da tempo ho abbandonato il ricorso alla macchina fotografica (analogica o digitale che sia) non a caso definita dallo stesso Le Corbusier “strumento di pigrizia”.

VILLA ADRIANA
tecnica mista su carta, cm 20,5 x 13, 2018
Sono convinto che il primo pensiero diviene schizzo quando si riesce a fissare sul foglio dei segni, tracciati con una velocità analoga a quella con cui si forma nella mente il suo corrispondente disegno interno.

Certamente, a partire dalle considerazioni espresse lo schizzo risulta più che mai legato, non soltanto al processo “creativo” o “ideativo”, ma al saper vedere, ovvero al vedere come, al vedere cosa al fine di nutrire l'immaginazione creativa. Parlando della capacità di saper vedere e quindi della sua processualità, non si può fare a meno di rivolgere il pensiero e lo sguardo (sarebbe il caso di dire) alle attitudini insite nella coordinazione oculo-manuale e ad alcuni modi di vedere nel senso espresso da Le Corbusier nella celebre frase La chiave è questa: Guardare Osservare Vedere / Immaginare Inventare Creare (Le Corbusier, Carnet T 10, n. 1083, 15 agosto 1963).

QUARTO CARNET DEI VIAGGI, matita grassa su carta, cm 20,5 x 13, 2018.

- Lei ha vissuto il passaggio dalla rappresentazione manuale a quella digitale, ritiene che questo cambiamento abbia modificato la modalità di elaborazione progettuale?
Proprio perché ho vissuto questo passaggio e posso vantare una formazione e una pratica professionale nel quale l’utilizzo del computer è entrato soltanto come mero strumento non sostitutivo della pratica manuale del disegno, posso affermare di avere un’idea diversa dell’architettura da quella che purtroppo sembra imperversare nei nostri giorni. Idea, quella odierna, frutto di un radicale cambiamento proprio della modalità di elaborazione e di concezione del progetto. Il mio concetto di architettura, al contrario, è segnato da una distanza siderale rispetto a coloro che vivono della infatuazione per il mondo dei software del disegno digitale e cercano di riprodurre nei propri edifici (in questo caso mi è difficile applicare il sostantivo qualificativo architettura) qualcosa che evochi le mutazioni di immagini che si formano sullo schermo di un computer. Sono altrettanto distante da chi blatera della necessità di una presunta “ingegnerizzazione dell’architettura” (più o meno un ossimoro). Distante dai nuovi profeti del BIM e da tutti quei innovativi metodi digitali (che altro non sono che “architetti” cibernetici) atti alla generazione di forme e involucri di nuovo tipo per l’ambito architettonico (dei nostri tempi) e dove le forme generate sono il risultato, non dell’immaginazione dell’uomo, ma di sistemi elettronici che determinano la configurazione conclusiva.

Per tutto questo non riesco a definirli architetti e ciò che producono per mezzo di tali elaborazioni tecnologiche digitali per me non è esattamente architettura.

Estratti da QUINTO CARNET DEI VIAGGI (Pompei, Villa Adriana)matita grassa su carta, cm 20,5 x 13, 2018
L’uso diffuso di diversi strumenti elettronici e informatici di supporto all’esercizio del mestiere dell’architetto cui nessuno può o intende sottrarsi non deve farci dimenticare come i relativi processi produttivi dovrebbero rimanere strutturalmente artigianali, almeno come atteggiamento ideologico e come punto di vista.

In ogni caso il riferimento alla “manualità” introduce la riflessione sul rapporto tra i meccanismi propri del processo creativo e la estrinsecazione dello stesso in una espressione produttiva e compiuta.

L’attività creativa per quanto possa essere razionalizzata, ossia resa “logica” (benché credo rimanga, almeno inizialmente, un processo poetico, ossia “analogico”), non nasce dal semplice mettere assieme dei dati ed elementi codificati, e pertanto non può essere affidata interamente alle regole di un sistema computerizzato.

Almeno non subito.

Progetto di un luogo di culto a Tanaf, Senegal, 2017
Facendo riferimento all’esperienza del fare disciplinare si potrebbe sostenere che si ricorre al computer solo quando tutte le decisioni di natura progettuale sono state prese, verificate e assunte attraverso l’azione manuale del disegno. Avendo una visione intransigente della questione, ritengo che anche in questa fase si corre il rischio di perdere qualcosa del processo di costruzione del progetto, poiché questo non si può considerare realmente concluso, e quindi è necessario essere sempre pronti a intervenire per perseguire altre ipotesi che all’improvviso si presentano.

Ciò che nei sistemi CAD può diventare deviante è la velocità di produzione delle immagini disegnate. Basti pensare all’importanza che in passato ha avuto l’esperienza del sorgere graduale delle impressioni visive dei disegni prodotti manualmente: dalle visioni bidimensionali di piante, prospetti e sezioni, alle visioni prospettiche e tridimensionali in genere, ivi compreso la realizzazione di modelli di studio.

Una gradualità che diveniva giusta garanzia di verifiche e riscontri critici continui del progetto sino all’ultima linea.

Vorrei concludere citando le parole profetiche di Vittorio Gregotti riguardo l’utilizzo del computer nella elaborazione del progetto di architettura: «se l’architettura dovesse formarsi senza la matita, i cui movimenti richiamano immagini d’oggetti architettonici passati, che sono stimoli insostituibili all’immaginazione creativa, rischiamo di cambiare l’architettura stessa, e non in meglio». (V. Gregotti, Il Disegno come strumento del progetto, Mariotti Edizioni, Milano 2014.)

- Le diverse funzioni della simulazione digitale riprendono i nomi di strumenti concreti, ritiene vi sia un aspetto della rappresentazione digitale del tutto inedito che non è possibile realizzare manualmente?

MUSEO NARRATIVO "LA FABBRICA DI GUGLIELMO", EIDOTIPO A
disegno a mano libera su tavoletta grafica, cm 15 x 20, 2009
Ritengo che, nell’ambito del disegno, tutto ciò che non sia possibile realizzare manualmente sia privo di effettivo valore e di significato appartenendo ad una dimensione extra-umana, frutto di una massificazione culturale generata dall’incondizionato fideismo nella tecnologia informatica.

Da anni ho intrapreso all’interno dei miei laboratori di progettazione architettonica, con particolare riguardo a quelli di laurea, una sorta di percorso che chiamerei del trans-digitale nelle forme della narratività grafica. Il digitale ha trasformato i modi del progetto e la sostanza della sua rappresentazione, con forme figurative che, più diventano sofisticate nelle tecnologie globalizzate e omologanti che le sostengono (terza e quarte dimensioni, realtà aumentate, render iperrealisti, Bim a tutto spiano) più si allontano dall’architettura e dalla mano dell’uomo che la pensa e la rappresenta. Trans-digitale, oltre il digitale, significa per me andare esattamente in senso opposto a quello verso cui tutti o quasi si sono già avviati e da tempo. Voglio essere consapevolmente contro corrente e per questo chiedo ai miei allievi di intraprendere scritture grafiche che producano, anche se realizzate al computer, dei disegni in grado di manifestare, ancora una volta, la centralità dell’uomo e siano in grado di generare e di restituire graficamente degli spazi atmosferici carichi di loquace silenzio che evidenziano la tensione insita nell’ascolto della realtà.

Inoltre la polisemia del termine rappresentazione è fonte di non poche ambiguità come ci ha spesso ricordato Vittorio Ugo in molti dei suoi scritti (V. Ugo, μίμησις mímesis. Sulla critica della rappresentazione architettonica, Maggioli, Milano 2008). Ambiguità polisemica che deriva da una nostra cattiva abitudine, spesso stigmatizzata dallo stesso Ugo, di utilizzare sinonimi. Sinonimi che semplicemente non esistono poiché le parole, per quanto possano intrattenere tra loro rapporti di affinità, hanno sempre significati diversi talvolta inaspettatamente antitetici. A dipanare ogni ambiguità ci giunge in soccorso il tedesco con le sue nette distinzioni semantiche dei termini. Quando infatti si parla di rappresentazione nel senso del Darstellung, ci si limita alla stessa rappresentazione del campo grafico visivo, certamente riduttivo rispetto alla tensione progettuale insita nel termine disegno. Quando invece ci riferiamo alla rappresentazione nel senso di Vorstellung, quest'ultimo contiene «una dimensione concettuale e teoretica [...] coglie la forma nella sua strutturazione profonda, nel suo essere costruita e nella sua dimensione storica. A questa nozione i greci davano il nome di schema [σχῆμα -ματος]» (V.Ugo, cit.., p. 7)

Non è del tutto errato dire che questo distacco dei modi del pensiero greco ha condotto all’arbitrario e pericoloso corto circuito tra forma e immagine (quella della grafica digitale) sfociando infine nel completo dominio della seconda sulla prima e svuotando pertanto l’architettura dei suoi contenuti essenziali.

- Come docente universitario, ritiene che la generazione dei cosiddetti "nativi digitali" abbia un diverso modo di concepire lo spazio e la forma?

Da docente universitario ritengo, senza tema di smentita, che l’uso del computer nella didattica della progettazione architettonica, soprattutto nella fase della prima formazione, può essere devastante. Se lo studente, infatti, non ha ancora acquisito adeguate capacità di disegno manuale, tenderà a produrre, grazie all’utilizzo di sofisticati programmi informatici, immagini fine a se stesse. Inoltre, colmo dell’alienazione, adopererà uno strumento del quale di norma ignorerà il reale funzionamento.

MUSEO NARRATIVO "LA FABBRICA DI GUGLIELMO", EIDOTIPO B
disegno a mano libera su tavoletta grafica, cm 15 x 20, 2009
Pensando quindi alla necessità dell’agire manuale del disegno, anche e soprattutto nell’epoca del computer, è inevitabile ricorrere all’affermazione del filosofo presocratico Anassagora, che recita pressappoco così: «l’uomo pensa perché ha la mano». Si potrebbe notare che pensa in termini binari perché di mani ne ha due. Per questa affermazione Platone e Aristotele avevano tacciato Anassagora di materialismo. In realtà egli aveva colto nel segno, anticipando una tesi evoluzionistica confermata dai paleontologi. Infatti, è proprio la mano, che affrancando il capo da tutta una serie di funzioni, ancora riscontrabili in molte specie animali (raccogliere e procurarsi il cibo, forgiare la materia), ha consentito lo sviluppo della teca cranica e del cervello. A sua volta, la mano è stata affrancata, ad opera degli arti inferiori, dalla locomozione, sviluppando enormemente le sue capacità manipolatorie, liberando, conseguentemente, il cervello. Con un paradosso si può affermare che la mano ha in qualche modo generato il pensiero evoluto e la parola. A proposito di mani che pensano, non posso non citare La Main Ouverte di Le Corbusier. Per il Maestro svizzero «La mano è il punto di contatto tra l’architetto e il mondo» che consente di accogliere e donare. Essa è, per eccellenza, la mano dell’architetto che può e deve chiudersi per impugnare lo strumento (la matita) trasformatore della realtà, poiché è l’attività creatrice fatta al tempo stesso di ordine razionale e di emozione poetica. «Pleine main j’ai reçu, pleine main je donne» conclude con fare felicemente ossessivo Le Corbusier. Un’ossessione, questa, condivisibile e che è necessario trasmettere agli allievi, affinché diventi anche un loro felice assillo.

La stessa ossessione lecorbuseriana sembra pervadere le pagine de La mano che pensa di Juhani Pallasmaa. «La matita nelle mani è un ponte fra la mente che immagina e l’immagine che appare sul foglio di carta» (J. Pallasmaa, La mano che pensa, Safarà editore, Pordenone 2009).

Il noto architetto e accademico finlandese, al di là di ogni apparente posizione di retroguardia, osserva la tragicità insita nella constatazione della necessità, in un tempo come il nostro, segnato più che mai dall’iperbole tecnologica e dalla conseguente percezione “multidimensionale” del mondo e di noi stessi, di un ritorno delle nostre interiorità e delle nostre abilità corporee «verso un mondo euclideo […]. La coscienza umana è una coscienza incarnata; il mondo è strutturato attorno ad un nucleo sensibile e corporeo. “Sono il mio corpo” afferma Gabriel Marcel; “Sono ciò che mi sta attorno” sostiene Wallace Stevens; “io sono lo spazio in cui sono” stabilisce Noël Arnaud; e, infine, “Io sono il mio mondo” conclude Ludwig Wittgenstein» (J. Pallasmaa, L’immagine incarnata, Safarà editore, Pordenone 2011).

Le parole di Pallasmaa e le sue colte citazioni ci riportano, in conclusione, a quella condizione di profondo radicamento dell’architettura e del suo valore educativo – nel senso etimologico del termine educere, “trarre fuori” – nel substrato più profondo dell’abitare umano che appartiene a ciascuno di noi, alla nostra memoria, alla nostra dimensione biografica. Per tale ragione, ogni esperienza del fare architettura, come quella praticata nella didattica, non può che essere sostenuta dalle logiche e dai processi cognitivi impliciti nell’imparare. Ma un imparare vero e consapevole, necessariamente distante e lontano da qualunque dimensione digitale.

Il ricorso a questi ragionamenti potrebbe generare l’arroccamento su posizioni, certamente cariche di fascino, retaggio di un antropocentrismo culturale secolare, che tuttavia aiuta alla comprensione del reale portato innovativo che l’utilizzo di nuove inusuali procedure determina nei processi creativi.

ALLESTIMENTO ESPOSITIVO, Sezione prospettica digitale post-prodotta a mano libera su tavoletta grafica, 2020

L’architettura all’epoca del computer (parafrasando il titolo del saggio di Alberto Sdegno, L’architettura nell’epoca del computer, in «Casabella» n. 691, luglio-agosto 2001, p. 62) usa penne ottiche, scanner volumetrici per realizzare modelli digitali omologhi a quelli prodotti manualmente. L’uso degli strumenti informatici transita dalla sfera della progettazione a quella del calcolo strutturale, a quella della produzione con una progressiva esclusione dell’intervento dell’uomo. Macchine robotizzate a controllo digitale, collegate a computer di progetto, gestiscono, con precisione millimetrica, la produzione delle singole parti di elementi strutturali e di rivestimento, in acciaio, alluminio e vetro, dal taglio alla piegatura, predisponendoli per la successiva posa in opera.

Reticoli inestricabili di luminose, esili linee colorate su sfondo nero, si formano rapidamente al sommesso suono di un clic del mouse.

Strumenti come la riga, le squadrette, le matite o i tecnigrafi, che fino a tre decenni fa costituivano gli utensili quotidiani del nostro mestiere “artigiano” sono ridotti a mero armamentario obsoleto che ogni architetto ha definitivamente riposto in soffitta. Anzi, si ha quasi l’impressione che il ricondurre il processo creativo al tradizionale gesto della matita che scorre sul foglio di carta rappresenti un inerte ostacolo, una remora oppressiva nei confronti di un modo tutto nuovo di progettare. «Lo schizzo rappresenta un’idea preesistente nella mente dell’autore [...]. Io non credo più nello schizzo» (cfr. A. Sdegno, cit.); così afferma con stentorea certezza Eisenman e così ritengono (ma senza l’autorità culturale e la credibilità del maestro americano) buona parte delle nuove generazioni che nel lavoro digitale ripongono, spesso, tutte le loro granitiche, fragili certezze, spazzando via la pratica “antica” del disegno a mano libera di iniziale approccio alla progettazione. «Gli schizzi ora possono essere sostituiti da forme eterogenee di rappresentazione» (cfr. A. Sdegno, cit.). Layers, wireframe, rendering, lighting, morphing, warping, doubling sono solo alcuni termini del nuovo glossario informatico per le nuove elaborazioni grafiche che gli architetti senza matita vanno centonando in opime elucubrazioni linguistiche. Gente che ha poco da dire e, per questo, non sa tacere.

Casa a Misilmeri, 2011
- Loos diceva: "Il presente si costruisce sul passato, così come il passato si è costruito sui tempi che l'hanno preceduto", quale è il suo rapporto con la tradizione e l'innovazione della contemporaneità?
In relazione e in coerenza con quanto affermato da Adolf Loos, Mies van der Rohe diceva: «credo che l’architettura non ha niente a che vedere con l’invenzione di forme inedite, né con il gusto personale», si può sostenere che l’architettura non si dà come invenzione del nuovo ma attraverso l’attenta rilettura del materiale preesistente su cui operare trasformazioni. In tal senso il progetto non è mai una pura “creazione”, ma una trascrizione - cioè un furto o una copia intelligente - condotta sul solco di idee implicitamente presenti in opere precedenti. Non a caso parlo di “furto” e di “copia”. Chi ha un minimo di dimestichezza con i principi dell’apprendimento, nel campo dell’architettura e di tutte le manifestazioni d’arte possibili, là dove occorre l’immaginazione con attributo, ossia l’immaginazione artistica, sa benissimo che nulla, nasce dal nulla come la memorabile frase di Loos attesta.

Copiava Michelangelo dalla scultura ellenistica, da Giotto e da Masaccio ed è noto che lo stesso Masaccio copiava da Giotto; Mozart si rivela geniale anche nel campo delle rivisitazioni. In molte sue opere s’incontrano temi di Cimarosa e Muzio Clementi. Ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli: in tutta la sua opera si colgono infatti prelievi generosi da Cimarosa, Muzio Clementi, Gluck, Haydn e Paisiello. Bach, che io considero un vero e proprio Messia della musica, copiava e rubava da Vivaldi, da Alessandro Marcello e Tommaso Albinoni. Copiavano e rubavano Omero e Virgilio, Dante e Shakeaspeare, Manet copiava Goya, Picasso copiava El Greco e Cézanne. L’elenco dei Geni “ladri” è di fatto inesauribile, ma la loro grandezza non è minimamente scalfita dall’essere ladri, anzi ne costituisce un grande vanto e un esempio da “copiare” per l’appunto.

Insomma, per non farla troppo lunga, dirò che l’esercizio di leggere, studiare, copiare, rubare, manipolare, trasformare e co­municare i riferimenti concettuali e visivi scelti per alimentare il processo elaborativo dei nostri progetti, nel nostro caso di architettura, è un fondamentale atto intellettuale.

Spesso, ancorati alle nostre “ipotetiche” identità di ridicola originalità o innovazione, non ci rendiamo conto che ciò che produciamo deriva, nella maggior parte dei casi, da un naturale e continuo processo di “riciclaggio estetico”, labo­riosità che contribuisce a rigenerare e ampliare il nostro pensiero. Possiamo anche ipotizzare che nessuna opera è di per sé un unicum, ma frutto di un percorso di rilettura e attualizzazione di opere precedentemente viste e studiate, anche solo a livello inconscio.

Pertanto, come affermava Aldo Rossi, alla stregua di Adolf Loos, «la storia dell’architettura costituisce il materiale dell’architettura». Si agisce su ‘modelli’ storicamente conferiti e fenomenologicamente riconosciuti per modificarli lentamente, caricandoli di nuovi significati e attualizzandoli alla realtà dell’ambito storico in cui sono collocati.

GALLERIA ESPOSITIVA NEL COMPLESSO DELLA SS TRINITA' DI NAPOLI
tecnica mista su cartoncino, cm 20 x 25, 2018
- Ritiene sia un principio ancora valido che una nuova architettura si relazioni al contesto?
Ritengo che il rapporto tra architettura e contesto sia connaturato e pertinente all’architettura stessa, essendo archetipo fondativo della disciplina. In questo rapporto tutti i temi fondamentali sono presenti: il problema dello spazio e della sua costruzione, i rapporti tra fra natura e artificio, materiali e tecniche, funzioni e valore estetico, identità e differenza, appartenenza ed autonomia; e inoltre: il modo con cui le cose acquisiscono una “forma” e la percezione di questa, lo statuto dell’opera edificata relativamente al suo contesto fisico di appartenenza, i processi secondo i quali gli uomini agiscono, sintetizzando nell’unità e continuità dell’opera la semplicità e la separatezza del mondo naturale, il senso delle impronte impresse dall’attività costruttrice (al luogo) in quanto azione dell’abitare heideggeriano. Non a caso sarà proprio Martin Heidegger ad individuare nel “ponte” l’archetipo che riassume in sé il rapporto con il luogo, con il contesto: il ponte, infatti, non si limita semplicemente a collegare due rive, ma le rivela come tali. «Esso è il luogo».

Ma per comprendere sino in fondo l’importanza fondamentale di questa imprescindibile relazione, occorre innanzi tutto chiarire i significati di “contesto” e di “forma”. In senso filosofico, il termine “forma”, secondo Aristotele (I Libro della Metafisica) designa l’elemento fondamentale che, unito alla materia, determina l’individuo esistente. Il pensiero kantiano contribuirà in seguito a distinguere, anzi ad opporre, i due termini. Ma “forma” è anche “figura” o “aspetto esteriore” di qualcosa, è modo particolare di esprimersi in un’attività artistica, è modo esteriore di essere e di apparire. In ogni caso denota una modalità tangibile del sussistere, cioè esprime una “proprietà” nel senso di ciò che è proprio, specifico, appropriato. Nel senso più profondo, “forma” può non riguardare l’immagine di una cosa, bensì può essere “idea” (eidos), struttura, modalità. Sul piano dell’indagine etimologica ci limiteremo a constatare come il termine “forma” e il termine “abitare” convergano nel termine “avere” da comprendersi, in generale, come «modalità dell’essere, come struttura modale delle persone, delle cose, delle relazioni dei comportamenti e del fare». La stessa architettura o qualunque altro prodotto d’arte consisterà, allora, nell’essere “forma” e il compito dell’architetto o dell’artista dovrà essere la capacità di dare “forma” alla materia. Sarà forse questa sovente attuale incapacità di “essere forma” e di “dare forma” a connotare l’impasse culturale di molti architetti dei nostri tempi? La nozione di contesto trova delle specifiche articolazioni semantiche in termini come sito, luogo, ambiente area, zona, ma ne riassume più appropriatamente la complessità dei processi ontologici, delle relazioni che si istituiscono tra eventi fisici, storici e sociali.

Estratti da QUINTO CARNET DEI VIAGGI (Grotte della Gurfa)matita grassa su carta, cm 20,5 x 13, 2018
In sede analitica la definizione di contesto, che è parte del nostro mestiere, equivale a trovare il limite inteso come recinto, ovvero come l’ambito e la cultura del sito territoriale, quale materia imprescindibile del progetto: un disvelamento di valenze esistenti e latenti in un sito-natura o anche urbano. Proprio per tali motivi la lettura del contesto equivale anche a una notevole selezione e analisi critica rivolta a esaltare i valori e i significati del sito assunto quale campo di applicazione di indagini conoscitive. Solo a tali condizioni si perverrà alla trasformazione, con l’architettura, del sito in luogo. Ovvero affermando quella singolarità dell’architettura di poter scoprire tramite un sistema di relazioni complesse ciò che l’architettura è in grado di mettere in scena con il suo portato estetico e rappresentativo.
Lavorare con i materiali del contesto significa utilizzare apparati conoscitivi tesi alla comprensione della “geografia” e della storia del sito in cui si interviene, in quanto materiali essenziali con cui aprire un dialogo attraverso il progetto, con cui parlare e di cui misurare le differenze, a partire dalle contraddizioni del presente. Il sito offre una propria fisica resistenza e una propria profondità di memorie, ed è con esso che si confronta il nuovo: lo spostamento. Non si tratta di una relazione tra sfondo e figure della narrazione, ma di personaggi che dialogano tra loro, anche ostacolandosi, ma di certo il nuovo è il modo di rivelare il “contesto” a se stesso.

Il rapporto insieme con la diversità, che noi misuriamo per mezzo del progetto, tra il sito e quello che dobbiamo costruirci sopra, costituisce la nostra responsabilità; è sull’adesione a quel rapporto che si fonda la qualità della nostra architettura: è da quel punto certo che la qualità della nostra architettura si confronta con l’idea stessa del costruire, con il suo antichissimo archetipo. È attraverso esso che non esiste luogo senza progetto, né progetto senza luogo.

L’analisi sistematica del rapporto tra architettura e contesto costituisce inoltre garanzia di un atteggiamento non astratto o velleitario ma ne verifica il radicamento nella specificità contestuale, rifiutando l’omologazione ai modelli universali presunti validi ovunque.

Tale approfondimento analitico equivale ad interrogare il contesto, per trovare il senso ed il limite da attribuire al progetto di architettura, per legare altresì il portato tipologico disciplinare del manufatto alle forme e alla tradizione del luogo, nei suoi tratti significativi da tener conto nel progetto del manufatto.

ALIQUID STAT PRO ALIQUO, KRESPEL E IL GIARDINO-CASA
matite acquerellabili su cartoncino colorato, cm 16,7 x 19,7, 2020

- Il codice linguistico di un architetto quanto è influenzato da mode e correnti?

Il codice linguistico di un architetto non dovrebbe essere mai influenzato dalle mode, dalla loro consustanziale dimensione effimera e con il loro carattere di temporaneità. Essere fuori (o ai margini, se si preferisce) da certe tendenze modaiole o “correnti innovative” non produce necessariamente l’arroccamento su posizioni passatiste in difesa di nobili tradizioni, ma può aiutare a comprendere con maggiore lucidità critica il reale portato del fenomeno architettonico, oggi.

Mi sembra che certa architettura contemporanea, quella che appare agli occhi di molti come la più innovativa, alla moda, la più distante dalla tradizione, dal quel concetto imperituro di “classico”, sia in alcuni casi (forse in molti casi), invece, volontariamente sproporzionata e debordante, alla continua ricerca della trasgressività.

Vi è una pletorica relazione tra ogni cosa. Eccedenza nei significati, eccedenza in ogni rapporto tra causa ed effetto, eccedenza nella sottolineatura di ogni carattere distintivo, persino quello dell’efficienza o del tecnologicamente avanzato, che sovente finisce per diventare - come sosteneva Vittorio Gregotti - «caricaturale, cioè “ritratto carico”, caricatura della stessa modernità» (V. Gregotti, Claritas, integritas, proportio, in «Casabella», n. 626, settembre 1995, pp. 2-3.).

Vi è, infatti, nell’architettura dei nostri anni qualcosa che appare sempre caricato nei tratti, qualunque sia la sua tendenza. In questa accentuazione dei caratteri e nella fissità ripetitiva di certa produzione architettonica è riscontrabile, invece, una straordinaria consonanza con gli obiettivi della moderna pubblicità: ottenere la riconoscibilità per mezzo della deformazione; ovvero lavorare sulla forma per trasformarla in una formula pubblicitaria.

Casa a Portella di Mare, 2012
Come abbiamo imparato dalla pubblicità il “nuovo”, anche in architettura, è per definizione tutto buono, anzi è nostro dovere praticarlo. Anche se il buon senso ci dice che non è necessario fare qualcosa di diverso soltanto perché esiste la possibilità di farlo.

Le opere che popolano le riviste di settore, che ci vengono offerte come le più interessanti, sono presentate come portatrici del diverso, del mai visto e tecnologicamente avanzato, nella convinzione che si possa creare una diretta corrispondenza tra progresso scientifico e pratica artistica.

Il modello della pubblicità ha davvero preso il sopravvento anche in architettura. Ciò che non è esagerato, altisonante, sopra le righe, alla moda, per l’appunto, sembra non essere udibile. Si potrebbe parlare della formazione di un’estetica dell’esagerazione con dei suoi specifici caratteri riconoscibili in una sorta di diversità, apparente e incessante, fondata sull’uso sistematico dell’amplificazione e della deformazione.

- Può segnalarci quella che ritiene sia la sua pubblicazione più significativa?

Non è facile rispondere a questa domanda poiché, anche limitando questa scelta alle 8 monografie pubblicate nell’ultimo decennio, riconosco come ciascuna di esse costituisca, per me, l’esito di intense attività di ricerca. Ne potrei citare tre poiché espressione anche di ciò che molti definiscono la versatilità dei miei interessi.

La prima, cui sono particolarmente legato, è Carlo Giachery. Un architetto “borghese” a Palermo tra didattica, istituzioni e professione, edito dalla Flaccovio Editore nel 2011. Le altre due, rispettivamente del 2018 e del 2019, entrambe pubblicate da 40due edizioni, sono Antologia dell’architettura moderna in Sicilia e Progetto del museo. Dal Mouseion al museo narrativo. Il primo è uno studio inedito su una delle figure fondamentali della cultura architettonica siciliana della prima metà dell’Ottocento. Docente di Architettura della Regia Università degli Studi di Palermo, e maestro di Giovan Battista Filippo Basile, Carlo Giachery, per la sua capacità di esprimere un’architettura sinceramente ‘laica’, fu il primo a tracciare la via dell’architettura borghese a Palermo.

Antologia dell’architettura moderna in Sicilia è invece uno studio che mira ad individuare una metodologia di approccio agli esiti della cultura architettonica moderna in Sicilia attraverso l’analisi dei suoi processi di formazione.Si articola secondo una struttura che comprende una prima parte saggistica, di carattere critico-interpretativa, ed una seconda parte costituita dalla schedatura di alcuni esempi architettonici, individuati e selezionati nel vasto panorama del patrimonio architettonico costruito in Sicilia tra il 1930 e il 1970, ed osservati come casi di indagine esemplari di esplicitazione dei tematismi emergenti dallo studio, declinati soprattutto attraverso la nozione-concetto di moderno.
Infine,
Progetto del museo, la mia ultima pubblicazione monografica, offre una filogenesi culturale del museo, dalle origini ai nostri giorni, pervenendo alla individuazione di tematiche emergenti e alla interpretazione critica di esempi paradigmatici.

- Quale è il tema della ricerca che ha in corso o in progetto?

Uno dei temi ricorrenti della mia attività di ricerca trova sintesi ed esplicitazione nella dimensione, soprattutto di natura concettuale, dello “scavare e sottrarre in architettura”.

Scavare, dal latino excavare, possiede etimologicamente il significato di “rendere cavo” mediante l’azione del subtrahĕre (sottrarre). Tuttavia il significato del termine all’interno della sua necessaria disambiguazione non può essere inteso limitatamente alla luce dell’etimologia latina. Si dirà allora che la tecnica dello scavo è opposta e complementare alla tecnica dell’accumulazione. È un procedere per sottrazione di volumi, un operare in negativo per asportazione di materiale, erodendo, cavando ed estraendo. Gli esempi sono vastissimi: il palazzo della Gurfa in Sicilia, i “Sassi di Matera”, le architetture del sottosuolo di Napoli, i templi di Petra, e così via. Il lungo, anzi interminabile, elenco non si esaurisce affatto in produzioni assai lontane dal nostro presente che potrebbero relegare quella che mi piace chiamare, con Sergio Polano, l’architettura della sottrazione ad una dimensione arcaica (cfr. S. Polano, L’architettura della sottrazione, in «Casabella» n. 659, 1998). Anzi si potrebbe fare una lunga elencazione, se non interminabile, quantomeno consistente, di architetture contemporanee, recenti, agite tramite lo “scavo”. Si può costatare allora come tale tecnica rappresenti, più che una modalità costruttiva, un preciso atteggiamento teorico, una tecnica figurale, un ricorrere all’essenza delle cose, poiché lo scavo implica purezza di forme e chiari principi compositivi. Sottrazione versus ridondanza, ricerca di laconicità espressiva in antitesi all’eccesso di forma e di elementi. Una architettura in cui gesti e procedimenti sono riportati a una loro essenzialità intesa come tentativo del recupero di un vissuto, di una memoria ancestrale, di un tempo originario. In uno scritto del 1987, Francesco Venezia sottolineava come «il ritorno dell’interesse verso il mondo sotterraneo sia espressione di autentica modernità, sia una delle condizioni di affermazione della modernità» (Francesco Venezia. Teatri e antri, il ritorno del mondo sotterraneo nella modernità, «Quaderns d’arquitectura y urbanisme», n. 175, 1987). Una modernità che vede il prevalere della forma plastica sulla tendenza ostentativa della dimensione tettonica dell’architettura. Con le dovute differenze e con diversi approcci metodologici, l’idea di un’architettura che tragga origine dall’applicazione del principio compositivo della sottrazione di volumi, da intendersi anche in senso puramente concettuale, attraversa l’opera e la poetica di tanti architetti contemporanei.
GROTTE DELLA GURFA AD ALIA (PALERMO), tecnica mista su carta, 2018
Il tema dell’architettura nella roccia ha costituito l’obiettivo didattico di molte tesi di laurea, curate in qualità di relatore, ed elaborate a partire dall’A.A. 2012-2013, presso il Corso di laurea magistrale in Architettura LM4 dell’Università degli Studi di Palermo.

La scelta dei luoghi d’intervento ha privilegiato quelle aree al margine di insediamenti urbani, segnate da stratificazioni e da ancestrali processi di antropizzazione. Essi sono stati individuati come campo di sperimentazione progettuale del mio Laboratorio di laurea finalizzato ad utilizzare la particolare dimensione fisica di specifici luoghi come materia formativa e strutturante della stessa idea di progetto.

GROTTE DELLA GURFA, tecnica mista su carta, 2018
Si tratta di aree individuabili in contesti geografici assai diversi (Sicilia, Germania, Spagna e Portogallo), ma caratterizzate dal situarsi al margine di insediamenti urbani, dall’essere segnate da stratificazioni e da ancestrali processi di antropizzazione riconoscibili, spesso, nella presenza di antiche cave dismesse e abbandonate: dalle architetture rupestri del quartiere Rabato e del parco dell’Addolorata ad Agrigento alla cava Pedarso nel territorio dei Monti Sicani, dalle Latomie dei Cappuccini di Siracusa alle cave di Cusa e di Custonaci e a quelle di Favignana, dal costone roccioso della Quinta do Almaraz, sul Cais do Ginjal, porta di ingresso e “facciata” della città di Almada, di fronte Lisbona, alla cava Steinbruch am Druseltal nel parco collinare Wilhelmshoehe di Kassel. L’intento, in tutti questi progetti, risiede nel costituire il substrato per una nuova sensibilità tematica, linguistica e progettuale indirizzata verso una vera e propria dimensione sodale e osmotica tra le pulsioni emotive di una natura antropizzata e quelle dell’architettura, rifondando la complessità della disciplina progettuale sulla dimensione fisica e spirituale del luogo.


ANTRI, CONNESSIONI E RISALITEmatite acquerellabili su cartoncino grigio cm 50x70, 2010

- Come ultima domanda, di strettissima attualità, le chiedo un'opinione sulla "Didattica a Distanza" nell'ambito della sua disciplina di insegnamento universitario.
Credo nell’indispensabilità, da parte di noi docenti, dell’assunzione di uno sguardo rivolto con attenzione alla realtà che stiamo vivendo, capace, di vedere oltre il tempo presente che ci assedia e ci imprigiona, e non solo metaforicamente, in questo momento.

La pandemia ha accelerato bruscamente un processo ormai in atto da anni, mettendo a nudo gli effetti della crisi antropologica che pervade l’uomo occidentale. Mi chiedo se questo cambiamento radicale sia necessario, indispensabile. In ogni caso, per non essere travolti e dominati da esso occorre governarlo e, soprattutto “progettarlo”. A maggior ragione se lo strumento principale di tale mutamento è la tecnologia informatica con tutti i suoi potenziali benefici ma anche i molti aspetti negativi. Nessuno può negare come proprio la tecnologia costituisca, in questo momento, l’unico fattore di sopravvivenza del ruolo di docenti, assicurandoci la continuità del nostro lavoro. Eppure dobbiamo essere altrettanto consapevoli che soltanto un uso della tecnologia in cui prevalga la sovranità dell’uomo sull’invadenza della macchina digitale ci consentirà di relegarla al suo unico ruolo possibile: quello di strumento piuttosto che di elemento di supplenza sostitutiva. Il pericolo incombente è quello di un nuovo “umanesimo digitale”. Ribadisco, innanzitutto, che la didattica a distanza è un espediente che ha consentito e consentirà a noi docenti e, soprattutto, agli studenti, di non fermarci e di proseguire il nostro lavoro. Era ed è un dovere istituzionale al quale non potevamo e non dovevamo sottrarci. Così è stato e così sarà, spero non a lungo. Tuttavia, in condizioni di normalità sanitaria, ritengo che questo tipo di didattica non possa e non debba avere un futuro di qualsiasi genere. Essa è la negazione dei fondamenti dello stesso processo educativo e formativo di qualunque ordine e grado.

Il rapporto tra Docente e Discente non può che basarsi su una interazione diretta; l’unica che da millenni, al di là delle conquiste tecnologiche, ha regolato qualsiasi processo di apprendimento e, a maggior ragione, quello legato alle attività necessitanti di una sviluppata capacità manuale. La “distanza” genera soltanto una frattura insanabile tra insegnamento e apprendimento e il conseguente reciproco isolamento dei due principali soggetti coinvolti.

Nonostante gli inviti che giungono da più parti a considerare le presunte potenzialità della DAD da sfruttare come forma alternativa alla didattica in presenza, ad essa non potrà mai applicarsi la formula filosofica agostiniana aliquid stat pro aliquo. Non sarà mai qualcosa che sta per qualcosa d’altro in quanto espressione di una fragile e labile forma di conoscenza assai distante dall’autentico sapere. «Molti non colgono la vera natura delle cose in cui si imbattono, né le conoscono dopo averle apprese, ma se ne costruiscono un’opinione. Simili a sordi, ascoltano e non intendono. Per loro vale il detto: presenti, sono assenti» (Eràclito di Efeso, Dell’origine). Duemilacinquecento anni ci separano dalle parole di Eràclito, ma esse appaiono più che mai di straordinaria attualità e ben si applicano agli esiti della didattica a distanza.

COSA SONO LE NUVOLE
matita grassa e barrette di grafite su carta, cm 42 x 21 (doppio foglio di taccuino), 2019.